(Giorgio Agnisola, presentazione della mostra, 1987)
(Giuseppe Ventrone, Caserta, 2000)
"… Anche quella di Fabrocile è una fine operazione intellettuale. Si tratta del tentativo, da parte dell’artista casertano, di creare un legame fra parola e immagine, attraverso la suggestione metaforica dell’opera letteraria riflessa nella interpretazione visiva. In effetti i quadri di Fabrocile caratterizzano alcuni romanzi più significativi del Novecento attraverso oggetti, cose, simboli che sono, in definitiva, sintesi estreme del swnso profondo del romanzo di volta in volta preso in considerazione…".(Lidia Luberto, “Il Mattino” 22 aprile 2001)
Un paesaggio angosciosamente terso fa da sfondo agli elementi pittorici dei quadri di Umberto Fabrocile. Sembra quasi che la visione delle opere avvenga, e può solo avvenire, attraverso un filtro di una lastra di vetro che, seppur separandoci, ci coinvolge nella realtà di un oggetto quotidiano, anche se, al tempo stesso, ne impedisce il contatto, l’appropriazione, poiché l’oggetto ha subito un processo di iconizzazione ed è diventato segno artistico, acquisendo un valore semantico amplificato. La sua dimensione di reale resta nell’ombra che si staglia da esso, o nell’inquietante rappresentazione statica di un momento cinetico quale il gocciolare di panni stesi ad asciugare o il loro sventolare al vento. Ovunque, tracce di una presenza discreta, appena accennata. Ma l’artista si concede anche a giochi di seduzione mentale più raffinati. Allora le ombre si trasformano in linee di confine, dove il dettaglio diviene fine a sé stesso nel suo netto isolamento spaziale dal contesto; ma è anche parte emotiva di un tutto composto da mondi paralleli che si intravedono tra loro, si sbirciano, ma non si intersecano. Sta a chi guarda, la scelta di andare oltre la linea di confine.(Patrizio Siviero, Caserta 23 marzo 2002)
La prima interpretazione dei lavori recenti di Umberto Fabrocile si concentra sul significato simbolico dell’arte come segno d’origine di una dimensione metaforica che costituisce un linguaggio “altro”, integrativo e talora alternativo della pagina scritta e della parola. Interpretazione che insegue il contenuto iconografico dell’opera e il suo progetto espositivo, caratterizzati da una forma espressiva nitida, da un linguaggio pulito ed essenziale, segnato da un lucido e intenso realismo visivo che si alimenta di multiple e alternate suggestioni ( il vuoto e il pieno, lo scaffale e l’oggetto su di esso collocato, il titolo dell’opera rappresentata e la sua traduzione allusiva e così via). Ad una successiva lettura si coglie però un senso più nascosto, più psicologico si direbbe, ma anche più poetico dell’arte. Si avverte che le opere non sono state scelte per caso e neppure con un criterio puramente coreografico o visivo: la scelta risponde ad un percorso interiore: un percorso affatto interpretato senza un principio e naturalmente senza un fine. L’opera cioè e la sua immagine riflessa e trasposta costituiscono il luogo di una dialettica speculazione della vita, quella dell’artista che interpreta il mondo in una forma visibile che corrisponde a quella invisibile, quella dell’artista che legge i nessi della stessa sua esistenza nel dialogo con l’altro da sé riflesso e mediato nell’immagine.Di qui, anche, lo stile di Fabrocile: la levigatura del tratto, l’evidenza tecnica, la scelta stessa di una forma di iperrealismo intimista e controllato. C’è insomma nella ricerca di Fabrocile il tratto di una indagine intima, che aspira a una sintesi di vita, a tradursi in presenza intellettuale, in logica dei sentimenti e della sensibilità. Una logica che ha tempi lunghi, che si intuisce presupporre la persistenza del tempo e l’apprensione dei suoi spazi interiori, delle sue vie silenziose e profonde nei chiusi riverberi dell’emozione e della coscienza. Un tempo che dilata le sue pareti sensibili nella tesa coniugazione di visione e memoria psicologica, tra passato e presente, tra realtà e immaginazione.(Giorgio Agnisola, testo in catalogo, Caserta 2003)
La libreria pittorica di Fabrocile ci si offre allo sguardo come una galleria di volumi e oggetti. Ma essa, coerente con la propria natura, dopo la prima occhiata, ci chiama ad instaurare un rapporto di lettura a molti strati; dietro il sobrio rigore delle linee rette degli scaffali, dei libri scorgiamo l’appello ad un responsabile atto di cooperazione interpretativa. Il mondo del libro, il libro del mondo: è il paradigma metaforologico esplorato da Blumenberg, che lo percorre dalle origini scritturali alla formulazione del codice genetico, riconoscendone la vitalità attraverso i successivi riadattamenti cui è sottoposto nella storia della cultura occidentale. Leggere il libro del mondo è ideale primigenio e frustrante: quando il Macedone è alle porte, avvisa lo scettico Luciano di Samosata, l’intellettuale deve farsi xénos en toís biblíois, ospite dei propri libri. Dinanzi alla barbarie l’intellettuale si chiude nella propria biblioteca, inerme custode dei valori di civiltà, frugando tra le pagine in cerca di restaurare un ordine negato. La biblioteca è spazio di legittimazione quanto di compensazione dell’impotenza. La pittura ha rappresentato con impareggiabile efficacia questa condizione ancipite lungo il farsi della modernità; pensiamo all’iconografia di san Girolamo raffigurato nel suo studio, emblema dell’intellettuale; pensiamo al san Girolamo di Antonello da Messina della National Gallery e a quello di Carpaccio della veneziana Scuola di San Giorgio, che ci restituiscono l’immagine del crescente prestigio dell’uomo di lettere rinascimentale, i cui massicci tomi e raffinati oggetti assurgono a status-symbols di un nuovo ideale di nobiltà; pensiamo d’altronde al san Girolamo di Dürer della Galleria Corsiniana e a quello di Caravaggio della Galleria Borghese, nel cui studio campeggia un teschio a monito del memento mori, della vanitas, insomma dell’irriducibile conflitto tra natura e cultura; e pensiamo ancora al ritratto di Erasmo da Rotterdam del fiammingo Quentin Metsys, dove l’umanista ci appare intento alla scrittura immerso fra i propri libri, con in pugno la penna che, fin quando avrà energie, vorrà opporre alle spade sguainate dagli odi confessionali. Questa tradizione pittorica, che rappresenta lo sforzo di serbare una possibile leggibilità del mondo, è notomizzata nelle tele di Fabrocile, il quale ritaglia bui scaffali, membra dolorosamente amputate dal corpo della biblioteca, mute finestre illuminate dalla sola presenza del libro. Libri tascabili, edizioni comuni, per lo più, nessuna lussuosa copertina, nessuna pregiata legatura. Libri sodi e virili, si sarebbe detto un tempo – ed era il tempo, sarà bene ricordarlo, in cui il libro era inteso come arma contro la tirannia fascista. Libri perciò corposi, raffigurati con puntigliosa esattezza. Oggetti non sublimi, ma di concreta fisicità. Il riquadro della scansia configura lo spazio e lo risucchia fino ad esaurirlo. Spazio in cui non trovano posto altro che oggetti, dove la figura umana è ineluttabilmente estromessa. E allora, si dirà, la biblioteca postuma (post-moderna? ), polverizzata, luogo della rovina, è l’unico spazio possibile, dove ritirarsi in compagnia di pochi libri fortunosamente sopravvissuti, non più garanti di alcuna coerente cifra ermeneutica? dove si è per sempre rinunziato al sogno – frustrato –, che fu di Mallarmé, fu di Borges di vedere «il mondo risolversi in un bel libro»? Le monde […] est fait pour aboutir à un beau livre … E invece quel mondo si può solo sogguardarlo come da una prigione, entro dipinta gabbia? Questo, ma anche altro. In ogni dipinto di Fabrocile al libro è giustapposto un oggetto. Un oggetto all’oggetto- libro. Ma, si badi, non è questa tecnica di correlativo oggettivo, volontà di affidare, travasare nell’oggetto il senso del libro – o lo è solo in certa misura. Qui il piano dei significanti e quello dei significati sono abilmente disarticolati. L’oggetto è piuttosto estrusione, sporgenza del libro verso il mondo. Tentativo di evasione, e solo parziale, dalla gabbia dipinta. Gli oggetti sono ora banali, ora ironicamente introdotti, ora tratti dalla sfuggente memoria personale dell’autore: la bottiglia per Bukowski, il ficodindia per Camilleri, la foto materna per Moravia. Libro e oggetto danno origine ad un movimento pendolare, che complica e intende non definire il rapporto tra interno-libro e esterno- mondo – ma i due binomi sono suscettibili d’inversione quanto alla relazione tra interno ed esterno – , tra ciò che è centripeto e ciò che è centrifugo. E altrettanto aperto resta il rapporto di lettura che l’osservatore è chiamato a stabilire con il dipinto, poiché l’accoppiamento tra libro ed oggetto, ora scontato ora capriccioso, suggerisce l’impossibilità di esaurire il senso del libro nel referente storico-effettuale.(Oreste Trabucco, testo in catalogo, Caserta 2003)
(Nadia Verdile, presentazione mostra, Caserta 2007)
La recente ricerca visiva di Umberto Fabrocile, sembra muovere da un suggerimento di ordine filosofico. E in realtà non è esclusa nella ambiguità del suo possibile senso, un sotteso riferimento ad una dimensione dell’essere e del sentire connessa con un bisogno di maggiore lucidità negli ordinari e straordinari accadimenti della vita.(Giorgio Agnisola, testo in catalogo, Caserta 2007)
«Niente è più individuale del modo in cui ci si pone davanti a un’opera d’arte, niente è al tempo stesso più caratterizzante un’epoca di questo stesso porsi. Perché tutto vi concorre e vi si raccoglie: sensibilità e dottrina, carattere e spirito del tempo, visione del mondo e moda»(E. H. Gombrich, Mutamenti nel modo di guardare l’arte da Winckelmann a oggi)
L’ispirazione civile della pittura di Fabrocile, già esprimentesi nel ritrarre la marginalità sospesa o la parola che faticosamente si raggruma in libro e cerca il suo oggetto, in questa nuova esposizione si precisa e altresì si complica Il tempo quotidiano incontrollabile, diluito, espanso, spossessato, solo ormai consegnato alla parola che lo dilata, lo comprime, lo potenzia o vanifica, ad uso di chi se n’appropria, sino al lenocinio, s’affaccia qui per lacerti, ora lame ora inservibili detriti. Tempo che opprime e non che salva, rio tempo narrato a prendere di chi dentro vi vive la miglior parte, senza ch’egli se n’avveda, stretto tra i poli elidentisi di variazione/ripetizione. Tempo quotidiano solo trattenuto, e subito dissipato, da diluvi di sillabe accostate, a formare parole, sogguardate, vedute, compitate, anche lette, in una dimensione ormai cis-linguistica - prima della lingua quale mezzo di comunicazione - o trans-linguistica - oltre tale funzione, e dunque: verso dove? Oltranza della comunicazione quella odierna, sino all’oltraggio di chi è, si fa, è spinto, si trova ad esser lettore; di notizie, comunicati, slogans, messaggi diramati da emittenti più o meno riconoscibili, più o meno occulti. Civiltà di parole, ma quale? Cacciato nella centrifuga mediatica, l’individuo è amputato della condizione di civis, più spesso ridotto a malsano bacino di raccolta delle già decomposte frattaglie che dovrebbero sintonizzarlo col mondo fuori di sé, farne possibile lettore del libro del mondo. Di fronte a ciò, a muovere Fabrocile è un atto di responsabilità che incalza e non pacifica. Che ha ad un suo estremo una chance di riappropriazione della parola fatta a brani e offerta quando già dilaniata. Il susseguirsi delle tele pone l’osservatore di fronte alla parola strillata dal quotidiano ormai decomposta, piegata ad una desemantizzazione che la riduce a mera successione di grafemi.Ma in un contesto ancipite. Dove è altrettanto possibile avviare processi di risemantizzazione della parola annichilata, se sottratta allo spazio che l’ha originata e se condotta in un diverso spazio che l’intreprete voglia ricostruire in uno sforzo di resuscitata narrazione, sino alla soglia dolente dell’- auto-narrazione. Lo spazio iconologico dove Fabrocile accosta parole ad immagini è percorso da un’istanza di arbitrarietà; arbitrarietà consustanziale al segno, che qui prelude però alla socialità, in quanto rinnovata ricerca di significato da conferire a veicoli depositati sulla tela come postumi alla propria funzione originaria. Ricerca ben oltre che solipsistica, autarchica, giacché avente sempre ad oggetto la parola fatta pubblica, scagliata nel circuito collettivo, declinata sulla scena politica. Ma ricerca in nessun modo garantita quanto ad esiti: a ciascuno l’onere della procédure. Così esorta la fitta ricorrenza di temi e di atmosfere magrittiani profondamente rivissuti; Magritte che semina situazioni quotidiane di segnali minacciosi, aprendo il reale ad una pluralità dimensionale, ad una polisemia lacerante, obbligando l’osservatore ad una affannosa dislocazione della specola interpretativa. Né ricerca garantita quanto a direzione: così ancora ammonisce la galleria di volti più o meno illustri da rotocalco distesi sulla classica figura de L’ami intime, volti dispiegantisi a configurare un’apparente anticlímax, la cui risoluzione tocca scoprire mediante un accostarsi pensoso e prudente alla tela. Siano alla mostra viatico i versi di uno dei nostri poeti che più ha sentito il peso, la responsabilità della parola, versi da Salutz di Giovanni Giudici, per questa mostra che tanto chiede a cielo-e-mare: «Dolcezza di parole / Di lei soltanto vivremo – / Non io che a pronunziarle adesso temo / La correzione vostra sospettosa – / E navigo nel buio cielo-e-mare / All’incerto approdare / Dove il parlare mio sarà una cosa…».Oreste Trabucco testo in catalogo, Caserta 2007
In un tempo segnato dal quotidiano dispensato in ogni forma possibile fino alla dissipazione, è il quotidiano ancora pensabile? O l’eccesso d’informazione rende il tempo dis-pensabile? La velocità vertiginosa del dispensare autorizza ancora un pensiero responsabile? L’itinerario della mostra pittorica di Umberto Fabrocile si impernia su questi interrogativi, ripensando una maniera d’autore già sperimentata in precedenza quanto al faticoso e drammatico rapporto parolaimmagine. Come in ogni responsabile esperienza interpretativa è l’osservatore chiamato a cercare le tracce di verità o menzogna che l’autore dissemina.Oreste Trabucco
Oreste Saccone
C’è un breve racconto di Musil, Porte e portoni, che così si chiude: «I bei giorni delle porte sono ormai lontani [...] Del resto non si sbatte più la porta in faccia alla gente, tutt’al più non si accetta l’annunzio telefonico della sua visita; quanto a “scopare la propria soglia”, è diventata un’esigenza incomprensibile. Sono modi di dire da un pezzo superati, care fantasie che ci assalgono melanconicamente quando consideriamo un vecchio portone. Storie che svaniscono nell’ombra intorno ai buchi lasciati aperti provvisoriamente nei nostri tempi soltanto per il falegname». Musil su queste porte e questi portoni proiettava la crisi irreparabile di una civiltà che s’era ancora nutrita di versi mandati a memoria quali quelli incipitari del carme 67 di Catullo, aperto in forma di paraklausíthyron: «O dulci iucunda viro, iucunda parenti, / Salve, teque bona Iuppiter auctet ope, / Ianua»; «Tu a un ammogliato cara tu a un padre preziosa / Porta, salute a te! Ricevi da Giove ogni bene» (Catullo secondo Ceronetti). «Ora, – è ancora Musil – come possono esservi le porte, quando la “casa” non c’è più? La porta originale prodotta dalla nostra epoca è quella girevole degli alberghi e dei negozi. Un tempo la porta, come parte per il tutto, rappresentava la casa». Com’è sua cifra, Fabrocile prende a costruire un proprio possibile itinerario conoscitivo, sotto le insegne di una discrezione che indugia in limine, convocando l’osservatore sulla soglia, che ha dunque egli da scegliere se attraversarla. Una convocazione a un atto di lettura, si potrebbe dire, che sottende un’etica del lettore, giacché «non si dà vero dialogo col testo senza avvertire la responsabilità dell’altro in sé. Ma a questo punto [...] il lettore si ritrova in una singolare esperienza di libertà: non la libertà di un consumatore, ma veramente di un cooperatore » (Ezio Raimondi). Fabrocile costruisce una sorta di para-testo, le sue soglie sono come prières d’insérer; «una cosa in para non solo si trova simultaneamente da una parte e dall’altra della frontiera che separa l’interno dall’esterno: essa è anche la frontiera stessa, lo schermo che costituisce la membrana permeabile tra il dentro e il fuori», ha scritto Joseph Hillis Miller in un saggio intitolato The critic as Host, che qui viene di citare per la ‘condizione d’ospite’ cui Fabrocile chiama il suo spettatore potenziale.Massimo Mercanti Consigliere della Fondazione Balestrieri
Giorgio Agnisola
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