C’è un breve racconto di Musil, Porte e portoni, che così si chiude: «I bei giorni delle porte sono ormai lontani ... Del resto non si sbatte più la porta in faccia alla gente, tutt’al più non si accetta l’annunzio telefonico della sua visita; quanto a “scopare la propria soglia”, è diventata un’esigenza incomprensibile. Sono modi di dire da un pezzo superati, care fantasie che ci assalgono melanconicamente quando consideriamo un vecchio portone. Storie che svaniscono nell’ombra intorno ai buchi lasciati aperti provvisoriamente nei nostri tempi soltanto per il falegname». Musil su queste porte e questi portoni proiettava la crisi irreparabile di una civiltà che s’era ancora nutrita di versi mandati a memoria quali quelli incipitari del carme 67 di Catullo, aperto in forma di paraklausíthyron: «O dulci iucunda viro, iucunda parenti, / Salve, teque bona Iuppiter auctet ope, / Ianua»; «Tu a un ammogliato cara tu a un padre preziosa / Porta, salute a te! Ricevi da Giove ogni bene» (Catullo secondo Ceronetti). «Ora, – è ancora Musil – come possono esservi le porte, quando la “casa” non c’è più? La porta originale prodotta dalla nostra epoca è quella girevole degli alberghi e dei negozi. Un tempo la porta, come parte per il tutto, rappresentava la casa»
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